Il giardino della Torre di Peppe

“la natura che dipinge per noi” (Ruskin)

Sono passati alcuni anni da quando mi fu chiesto di realizzare un dipinto del giardino della Torre di Peppe. Quella zona di Mola aveva sempre suscitato in me un certo interesse tanto che ne feci il soggetto delle partecipazioni del mio matrimonio. Ho fissato anche in un dipinto ad olio quel suggestivo viottolo che percorso verso il mare ritagliava, incorniciandola, la armoniosa veduta del campanile e della cupoletta della chiesa di Loreto, per poi proseguire con un lungo ed alto muro sulla destra su cui si aprivano ad una certa distanza umili porticine. Una parte di quel muro era il limite esterno del giardino di Pino Berlingerio. Mi sfugge oggi la reale situazione ambientale del luogo esterno al giardino; la ricordo complessa, molto rustica e comunque interessante. Mi piaceva quella periferia sconosciuta e soprattutto l’edicoletta sacra di antica memoria posta di taglio all’imbocco della strada che si restringeva. Quando poi un giorno ho varcato la soglia di una di quelle piccole porte, stranamente è stato come entrare in un mondo a me familiare. Catturata dai profumi delle zagare ritornavo indietro nel tempo quando da adolescente mi muovevo in quell’antico atrio di casa mia con l’adiacente giardino da cui giungevano tutti quei profumi dolci e amari: mandarini, aranci, gelsomini, fresie e gaggie stemperavano nell’aria quelle fragranze che ancora oggi di me fanno parte. Sorprendendomi ritrovai in quello spazio me stessa; ero serena ed inebriata dalle variazioni cromatiche di tutto quel verde lussureggiante che mi circondava. Con uno stato d’animo sospeso fra condizione interiore e realtà esteriore, immersa in quella rimembranza di sensi, seguii Pino e Rosa alla scoperta di quell’antico scrigno.

 Contrastava con l’ampia macchia del verde il candore dei muri verticali delle torri così semplici esternamente e affascinanti all’interno dove lo scalpellino con la sua abilità ha lasciato il segno e tanto buon senso. All’esterno i muretti, ora bassi, ora un po’ più alti,  delimitavano le zone dei vari livelli raccordati da pochi scalini. Notai l’uso sapiente di quel territorio: la natura non è stata alterata, anzi, le “imperfezioni” modellate dal tempo, fanno di questo luogo qualcosa di pittoresco che tanto sarebbe piaciuto ai romantici del XIX secolo. Lo sviluppo in lunghezza e i diversi livelli del terreno rimandano ad un alveolo di lama dove acqua terra e sole sono elementi in perfetto connubio. Sarebbe piaciuto a Ruskin questo florido spazio con le arcate basse, le alcove con tracce di antichi dipinti, espressione di una religiosità intima e sentita, e poi quelle vasche per decantare l’acqua prima che questa sia raccolta alla fine del percorso nelle preziose riserve.

 A distanza il fitto agrumeto aveva le folte chiome inondate dal sole del mezzogiorno, i cespugli di acanto addossati ai muretti laterali sfoggiavano le decorative foglie lucide e poi le fioriere, anch’esse barriere dei vari terrazzamenti, contenevano le variegate erbe officinali, immancabili negli antichi giardini. Il tutto era un’impressionate gamma di colori brillanti. Là dove il terreno si articolava fra alti e bassi, benefica era la profonda ombra degli allori e sotto quel tetto di foglie in una vibrazione di effetti di luce e ombra ritornavo ai miei ricordi, quando d’estate sedersi all’ombra significava godersi tutta la bellezza della nostra giovinezza spensierata. Un balenio di raggi di sole esaltava il rosso del terreno, una terra di Siena bruciata in armonioso contrasto con la variegata gamma di verdi. Il verde, il colore principale del mondo, come l’ha definito qualcuno.

Il passaggio da una parte all’altra del lato breve del giardino era tracciato da muretti infiorati e da archi bassi come diaframmi messi lì a frenare il trasporto di materiale ingombrante e per indicare al di sotto le varie vasche di raccolta delle acque.  Scrutai quegli spazi ammaliata dai cromatismi, dalla luce solare che trapassava il fitto fogliame e che generava la metamorfosi dei verdi caricandoli di energia e vibrazioni; scartai la parte bassa malgrado intrisa di effetti di tradizione romantica con chiaroscuri evanescenti che però non motivavano la mia scelta. Mi posi in posizione più elevata, là appoggiandomi ad un muretto, scoprii la visione migliore da riprendere. Mi piacque soprattutto quell’insieme della parete bianca della torre con il rosso biscotto dei vasi, e poi le ombre vibranti sul viale, le chiome degli agrumi, dei melograni e in profondità il campanile della chiesa di Loreto. La struttura svettante, l’elegante ed articolata linea del seicentesco campanile dei marinai, così perpendicolare a quella striscia di mare azzurro, ora cobalto, ora oltremare, a volte indistinta dal cielo, mi fu di aiuto e capii che quello era il punto che compendiava meravigliosamente lo scenario di uno spazio che chissà quanti occhi in passato hanno ammirato. Avrei potuto realizzare in modo più personale quella veduta, attivando una ricerca di effetti particolari, forse timbrici, per ottenere un compendio di emozioni fortemente soggettive. Non ho voluto perché ho pensato che tanta bellezza andava emulata, conquistata, per essere tramandarla a chi un giorno potrebbe soltanto immaginarla. E’ stato questo il mio orientamento: il giardino della mia infanzia con il suo calore e il suo vissuto è scomparso per sempre e io lo sogno, vorrei percorrerlo per viverlo con la consapevolezza di oggi.